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Le sorti della seconda guerra mondiale si stavano capovolgendo e per il capoluogo della Basilicata, in marzo, parte un convoglio che trasporta combustibile. Ma anche 600 passeggeri clandestini. Nella sciagura le vittime saranno 512, 193 delle quali mai identificate, e le inchieste giudiziarie non hanno saputo stabilire cause e responsabilità

Il treno 8017 per Potenza: 1944, l’anno di una sciagura ferroviaria dimenticata

07-07-2011

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Il treno 8017La vicenda rievocata risale al 1944. Anno di guerra. Anno di eserciti alleati contro eserciti occupanti in cui infuria la lotta partigiana e il tribunale speciale della repubblica di Salò decreta la morte dei componenti del Gran Consiglio che il 25 luglio precedente destituirono Mussolini. In cui Palmiro Togliatti pronuncia il discorso di Salerno che segna la via democratica del partito comunista italiano. In cui Roma viene liberata.

Ma è anche l’anno in cui, nel mese di marzo, ha luogo una delle più gravi sciagure ferroviarie di cui oggi si è quasi persa memoria. Questa storia è ambientata sulla linea Battipaglia-Potenza, nella Galleria delle Armi, tra le stazioni di Balvano e Bella-Muro. Sul treno merci 8017, partito da Napoli alla volta di Potenza, 47 vagoni a cui si deve aggiungere una seconda motrice modello 476 di montagna altrimenti il convoglio non riuscirà a superare le pendenze di montagna, viaggiano abusivamente circa seicento persone. Ne moriranno 512 e di queste 193 non verranno identificate. Le cause della sciagura verranno attribuite all’eccessivo peso del treno e al carbone che gli Alleati usavano per la trazione dei convogli. Combustibile importato dalla Jugoslavia di qualità scadente, ricco di scorie e a basso potere calorico. Il che, tradotto in altri termini, vuol dire un’alta percentuale di monossido di carbonio.

Diversi anni dopo si tenterà la via giudiziaria contro le Ferrovie dello Stato. Le quali si difesero dicendo che, in quanto occupanti di un treno non destinato al trasporto di passeggeri, i morti non erano attribuibili a responsabilità dell’ente. Tuttavia, si fece notare, i viaggiatori avevano un biglietto ferroviario per imbarcarsi sul treno 8017 e qualcuno glielo deve aver pur venduto.

Il mercato nero e i pendolari

Per comprendere meglio la vicenda, occorre descrivere brevemente la situazione sociale in quei mesi. Sono due anni ormai che le derrate alimentari in Campania scarseggiano e la gente soffre la fame. L’unica alternativa è il mercato nero e Potenza, rispetto a Napoli, 170 chilometri scarsi di distanza, è più defilata per cui più sicura per i traffici illeciti di olio, farina, cereali, tabacco e ortaggi. Accade così che borsisti e acquirenti di sera partano dalla stazione Garibaldi del capoluogo partenopeo, all’alba arrivino a Potenza e nel tardo pomeriggio siano di nuovo a casa con le provviste.

L’esercito alleato, arrivato a Napoli nel settembre 1943 con la V armata statunitense, prende provvedimenti. Un po’ sicuramente per stroncare il fenomeno e un po’ per risparmiare sulla disponibilità di carburante, i militari riducono i trasporti passeggeri per il capoluogo lucano a un viaggio la settimana. Salvo poi chiudere un occhio sui clandestini che si imbarcano sui convogli merci. Altrettanto fanno macchinisti e personale delle Ferrovie che, per mandato degli Alleati, continuano a lavorare sulle tratte funzionanti.

Su quei treni, però non ci sono solo contrabbandieri. Ci sono anche i commercianti regolari, ci sono studenti, insegnanti e medici che continuano a lavorare in città diverse, distanti le une dalle altre, e che non hanno altro modo che le strade ferrate per muoversi. Come nel caso di un docente dell’università di Bari che insegna patologia chirurgica e propedeutica clinica e che quella sera prende l’8017 con una novantina dei suoi studenti campani. L’uomo, malgrado le difficoltà della guerra, non ha abbandonato il servizio all’ospedale San Carlo di Potenza e al Sant’Anna di Eboli. E i suoi ragazzi sono con lui quella notte perché stanno tornando insieme a Bari per riprendere le lezioni. Quando della vicenda si inizierà a parlare sui giornali (ma siamo già nel 1951), i colleghi dell’accademico prometteranno una lapide alla memoria e al valore. Ma poi non se ne fa più nulla.

Si diceva che solo sette anni dopo la stampa inizierà seriamente a raccontare ciò che accadde tra il 2 e il 3 marzo 1944 nella Galleria delle Armi. Ed è esatto perché l’unico quotidiano autorizzato a proseguire con le pubblicazioni a quel tempo, Il Risorgimento di Napoli, non riservò che poche righe in cronaca locale alla tragedia senza neppure circoscrivere la zona del disastro né indicarne la portata in termini di vittime. Merito della censura in tempo di guerra. Non che – va puntualizzato – nel 1951 la situazione si fosse evoluta al punto che ciò che era stato taciuto veniva riproposto senza più alcun condizionamento: furono infatti soprattutto due giornalisti indipendenti a riportare ciò che accadde a Balvano.

Una pendenza del 13 per mille

Il convoglio 8017 avrebbe potuto trainare al massimo 500 tonnellate. A vuoto – cioè composto da 47 carri merci, le due locomotive, il carbone marcio usato per tirare il treno e il personale di bordo (due macchinisti, due fuochisti e un frenatore di coda) – il treno ne pesava 479. A queste, però, ne andava aggiunta almeno un’altra quarantina, pari al peso stimato dei seicento passeggeri clandestini stipati in sole sei carrozze dato che le altre 41 erano state chiuse con lucchetti. Di quel peso eccessivo, ovviamente, non si fa menzione sui fogli veicolo che i militari anglossassoni compilano il 2 marzo prima della partenza del treno. Anche se sanno che il difetto del tonnellaggio esiste e che non corrisponde a qualche pugno di noccioline. E lo sanno anche alla stazione di Balvano, dove il convoglio giunge a mezzanotte e 12 minuti. Qui l’8017 rimane fermo per 38 minuti, i carri non vengono controllati e i passeggeri dormono quasi tutti. Quei pochi che non dormono, invece, si guardano bene dal fiatare.

Mancano dieci minuti all’una del 3 marzo quando viene dato il segnale verde al treno per Potenza. La partenza, da Balvano, viene comunicata a Bella-Muro, sette chilometri di distanza che, alla peggio, sarebbe stata percorsa al massimo in mezz’ora. Il treno si muove lento, imbocca la breve prima galleria e la supera. Entra nella seconda e percorre il successivo viadotto, trecento metri. Quella notta la pioggia è caduta fino a poche ore prima fitta. Ma anche se le precipitazioni si sono ormai esaurite, l’umidità ha impregnato tutto e i binari sono scivolosi quando il treno entra nella Galleria delle Armi.

Altri duecenti metri in un tratto in cui la pendenza non supera il 13 per mille. Ma il treno non ce la fa, perde velocità e allora si deve aumentare il carbone perché ci sia più energia per trascinare il convoglio. Non basta ancora, il treno è quasi fermo e i macchinisti ordinano di bruciare ancora più combustibile. I fuochisti aumentano il ritmo delle pale, ma di nuovo non abbastanza. A quel punto il treno si è arrestato del tutto. È dentro la galleria e il buio non fa capire quanto manchi alla fine di quel tratto e quanto invece occorrerebbe farlo arretrare per tirarlo fuori. I macchinisti ragionano, “che si fa?” si devono essere chiesti. Ma il monossido di carbonio non lascia loro il tempo di decidere. In pochi minuti, la locomotiva si riempie di gas e gli occupanti perdono i sensi.

In coda, il frenatore intanto scende. È stupito e preoccupato, si chiede che può essere accaduto per fermare il treno senza chiedere il suo intervento. Compie qualche passo verso la testa del treno, ma inizia ad avvertire una forte nausea, le gambe gli si fanno molli e allora capisce che sta succedendo. Deve andare a chiamare aiuto e torna da dove è venuto, verso l’imbocco della galleria. Si mette a correre – o almeno così gli sembra – perché, per tornare a Balvano e dare l’allarme, deve percorrere quattro chilometri e ci mette due ore. Quando finalmente raggiunge la stazione, cade in ginocchio e dice solamente che “là sono tutti morti”. Sono le quattro passate del mattino.

Il treno non arriva e nessuno ci fa caso

Pochi minuti prima che il frenatore compaia davanti ai ferrovieri di Balvano, è qui giunto un altro treno, l’8050. Ma prima di farlo ripartire, occorre essere sicuri che i binari più avanti siano liberi. Ma del treno partito poco prima dell’una non si è saputo più nulla. A Bella-Muro nessuno nota che l’8017 dovrebbe essere giunto da tempo e chi era in servizio quella notte deve aver pensato a uno degli innumerevoli contrattempi che si presentavano sui percorsi ferrati. Anche a Balvano non c’è ferroviere che si accorga dell’assenza di un messaggio di “arrivato” per l’8017. La deduzione del personale deve essere stata analoga a quella dei colleghi. Ma quel secondo treno va fatto ripartire e così si decide di staccare la motrice e andare in avanscomperta per accertarsi che non si siano problemi sulla linea. In quel momento compare il frenatore stremato.

La sola locomotiva dell’8050 parte non prima che a un guardasala sia ordinato di andare a svegliare il capostazione e ad avvertire in paese carabinieri, pretore e sindaco. All’imbocco della Galleria delle Armi si intravede il fanale di coda del treno disperso e il personale a bordo ferma il mezzo, scende ed entra nel tunnel. Nelle quasi cinque ore intanto trascorse, il fuoco delle motrici si è spento e il monossido di carbonio si è per la maggior parte disperso, permane solo un certo – ma non più letale – puzzo del gas. La portata della tragedia appare subito in tutta la sua portata: i sei dei 47 vagoni occupati dai passeggeri sono stipati di morti.

Il treno viene subito rimorchiato e trascinato a Balvano. Qui si iniziano a estrarre i corpi e ci si accorge che qualcuno è ancora vivo. Così i corpi senza vita vengono accatastati sui marciapiedi a fianco mentre i sopravvissuti sono trasferiti nei locali della stazione dove ricevono le prime e impacciate cure e poi caricati sulle autoambulanze per raggiungere l’ospedale di Potenza. Tra chi sopravviverà, c’è chi testimonia di essersi accorto che qualcosa non andava e di aver tentato di fuggire trascinando con sé qualcun altro. Ma per la maggior parte queste persone non hanno raggiunto l’uscita e solo una fortuita concidenza li ha risparmiati. Come un uomo che si stringe una sciarpa intorno a naso e a bocca e cade a faccia in giù. Un padre tenterà di salvare il figlio premendogli il volto contro il petto, ma troppo tardi, ed entrambi vengono trovati abbracciati per tentare di sfuggire al gas. Per i più, tuttavia, non ci sarà alcuna consapevolezza: il monossido si è insinuato nel sonno non lasciando alcuna via di salvezza.

Le inchieste avviate negli anni successivi dall’esercito americano e dalla magistratura italiana non attribuirono alcuna responsabilità per l’accaduto. Disgrazia per la quale ci erano andati di mezzo dei “fantasmi”, dei viaggiatori non autorizzati. Non importa anche avessero documenti di viaggio rilasciati non si è mai saputo da chi e che, pagando una penale, fosse comunque consentito salire su convogli merci. A un certo punto, poi, si fece avanti il ministero del tesoro che propose un risarcimento alle famiglie in base a leggi sui danni provocati dal conflitto. Risarcimento che arrivò con ritardi di decenni. Se arrivò.

Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet, cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)
 

Commenti

  1. Stefano Bovero

    Un pensiero, di compassione e di giustizia, per quelle vittime tanto numerose quanto silenziose. E, soprattutto, dimenticate, risucchiate tristemente nell’oblio da quel Moloch incommensurabile di morte collettiva che fu la Seconda Guerra Mondiale.

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