di Raniero La Valle
È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …
di Maurizio Chierici
L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …
Libri e arte » Teatro »
di Raffaella Ilari
“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …
Inchieste » Quali riforme? »
di Riccardo Lenzi
Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …
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Per 120 lavoratori l'angoscia di "trovare un posto" nell'Italia che di posti ne perde cento ogni giorno. L'autore televisivo Nevio Casadio ha dedicato un capitolo del suo libro, "Nel silenzio un canto" (Marsilio), alla Bialetti di dieci anni fa, quando uno scoppio uccide un ragazzo che smerigliava caffettiere. E arrivano extracomunitari disperati che non badano ai pericoli
La Bialetti è volata via: andiamo a bere il suo caffè in Romania
15-04-2010
di
Salvatore Giannella
L’emozionante libro-reportage ha per titolo “Nel silenzio un canto” e il silenzio di una manciata di ascoltatori ha accolto la sua presentazione, giovedì 8 aprile, alla Casa della Cultura di Milano, a cento metri dalla popolatissima piazza San Babila. Come se Milano non volesse più ascoltare storie di ingiustizie, di dolori e di riscatti come quelle raccolte dall’autore, il giornalista e autore televisivo Nevio Casadio, già vincitore del Premio Guidarello per il Giornalismo d’autore e, per tre volte, del Premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi. La prefazione è di Ettore Mo.
Eppure, a saper cogliere i segni dei tempi per i presentatori (fra i quali Giangiacomo Schiavi, vicedirettore del Corriere della Sera) c’era un motivo in più rispetto alla semplice presentazione di un libro. Quella mattina il Corriere ha annunciato, nelle pagine di economia, che Bialetti, la fabbrica di caffettiere di Crusinallo, vicino a Omegna, ha chiuso lo stabilimento in Italia: d’ora in poi le caffettiere contrassegnate dall'”omino con i baffi” si faranno in Romania. E per i 120 lavoratori del gruppo si spalanca la porta della angosciante mobilità in attesa “di identificare il miglior percorso e le migliori soluzioni in termini di ammortizzatori sociali”.
Proprio a quei lavoratori è dedicato un capitolo del libro di Casadio: “Pioveva sul lago triste di Verbania”. Vale la pena di leggere quelle righe, in un giorno doloroso che idealmente vede l’omino con i baffi piangere per la chiusura della “sua” fabbrica.
Ho chiesto a Nevio quale fosse la figura che più gli era rimasta impressa nella memoria di questo suo lungo viaggio tra diritti negati, sfruttamenti e ingiustizie: «I genitori di Giuliano», mi ha risposto. «Arrivai in quel paese nei pressi di Verbania in una giornata di pioggia. In quell’appartamento di una casa operaia, un padre e una madre vivevano la pena maggiore, inflitta a ogni essere umano: sopravvivere alla morte di un figlio». Giuliano, il loro unico figlio, aveva poco più di vent’anni. Era una ragazzo normale, onesto e buono come un pezzo di pane. Alla vigilia di Natale, come ogni mattina Giuliano si era recato al suo posto di lavoro. Operaio, in una piccola fabbrica, smerigliava macchinette da caffè, per conto della Bialetti. Nel Verbano-Cusio-Ossola, la lavorazione della smerigliatura, in passato aveva già creato diversi incidenti. E in quella vigilia di Natale, la piccola fabbrica dove Giuliano smerigliava macchinette da caffè, saltò in aria. Come dimenticare il padre di Giuliano, quando mi disse che di Giuliano erano rimati buoni soltanto i piedi?
Nel ricordo di Giuliano, in questi anni in Rai, ho avvertito – quale dovere civile – l’esigenza di raccontare altre storie di ordinarie violenze nel mondo del lavoro. Enzo Biagi, al suo rientro in Rai, mi chiamò a far parte del nuovo programma Rt-Rotocalco Televisivo, anche per questo. Ricordo bene, le sue parole. “Dobbiamo battere il chiodo, tutti insieme, affinché le persone conoscano queste infamie, che ogni giorno, tre quattro volte al giorno, avvengono tra l’indifferenza e il silenzio di tutti.
Ecco il racconto di Casadio:
In provincia di Verbania, l’industria Bialetti produce (produceva, ndr) milioni di caffettiere da esportare in tutto il mondo. Una risorsa che dà occupazione a una moltitudine di operai, e che rappresenta un’occasione di sviluppo per una miriade di artigiani del luogo. A queste piccole realtà, l’azienda dell’omino coi baffi, in quel periodo di cui sto parlando, il 2000, affidava tonnellate di caffettiere grezze da rifinire, pulire e lucidare. Ogni giorno, operai smerigliavano montagne di moke. E lavoravano con il cuore alla gola. Perché, smerigliare, uccideva. L’incubo per tutti, rispondeva al nome smerigliatura. Era in questa fase della lavorazione che si determinava la fuoriuscita di una miscela di polveri di alluminio che veniva poi risucchiata da potenti aspiratori. E ogni tanto, oggi non so, una fabbrica esplodeva. L’ultima, in ordine di tempo, fu la Nicomax di Gravellona Toce. Undici feriti, una strage evitata per caso.
Un sindacalista, Gian Piero Conti, descrisse il profondo nord, come una terra sempre più calpestata nei diritti del lavoro, un ritorno agli anni Cinquanta, quando tutto era premesso. «All’interno delle aziende non c’è alcun delegato alla sicurezza, non c’è la presenza del sindacato. Le lavoratrici e i lavoratori non conoscono i loro diritti, sono a conoscenza soltanto dei doveri, quelli impartiti dal titolare.
Il profondo nord, una sorta di nuovo Far West?
Non so se siamo in un nuovo Far West. Siamo certamente in un territorio illegittimo, irregolare, per la sua quasi totalità. La questione del lavoro nero, assume sempre più aspetti inquietanti. La legge seiduesei è applicata con il contagocce. Viviamo in un territorio selvaggio.
Andai così a trovare il titolare dell’ultima azienda esplosa, la Nicomax, quella dove lavoravano, Annalisa, Natascia, Cinzia, le ragazze operaie che avevano visto la bolla di fuoco.
Il titolare dell’azienda sventrata, appena gli dissi cosa volevo sapere, tirò fuori le unghie e maledizioni un po’ a destra e a manca. “A me questa fermata, è costata centinaia di milioni, non mi è costata soltanto diecimila lire, e adesso prima di riaprire i battenti, dovrò aspettare tempi burocratici lunghissimi, purtroppo”.
Si aggirava su e giù, come un cane alla catena. “Il lavoro è lavoro, anche andando in bicicletta può capitare un guaio a chiunque, no? Sono stato accusato di aver messo in regola il mio personale il giorno in cui mi è successo il sinistro, andiamoci piano con le accuse, soprattutto perché non venite fuori, faccia a faccia a dirmi una cosa del genere, intesi?”
In un bar, trovai un altro imprenditore che in fabbrica produceva pentole da molti anni ormai, Bruno Tognetti: “Io non ho mai visto di buon occhio il lavoro nero. Ho sempre pensato che una volta o l’altra tutti quanti avremmo dovuto prima o poi metterci in regola. Invece il lavoro nero, anziché diminuire è aumentato. Quando c’è stata l’ultima esplosione della fabbrica, e in giro c’era la task force dell’Ispettorato del lavoro, in Gravellona si vedevano tanti di quei marocchini a spasso, tanti di questi neri che passeggiavano per strada nei giorni di lavoro e la città sembrava un paese africano. Perché le ditte in cui questi ragazzi lavoravano, gli avevano detto: a casa, a casa perché c’è il pericolo del controllo, ritornate quando l’allarme è passato. Ma io capisco anche questi imprenditori pulitori, che smerigliano le macchine di caffè. Io li capisco, hanno fatto debiti mettendo su dei grandi impianti qui e là che costano patrimoni e per poter andare avanti accettano qualsiasi condizione, a qualsiasi prezzo”.
A qualsiasi prezzo. “In questi ultimi mesi”, sospirò allora il buon sindacalista Conti, “nella nostra zona abbiamo subito diciotto incidenti mortali, l’ultimo è stato un ragazzo di 23 anni, avvenuto pochi giorni prima di Natale. Ci troviamo a cento metri da quella realtà che, come questa qui, smerigliava delle caffettiere per la Bialetti”.
Andammo a visitare quella realtà distante cento metri appena e ci trovammo di fronte ad un cumulo di macerie, ferri divelti, come un’abitazione colpita e bombardata dal cielo da fortezze volanti.
Sì, un giorno una piccola fabbrica in cui gli operai smerigliavano caffettiere per conto della Bialetti, era saltata in aria, anch’essa come altre. Un’esplosione dalla colonna di fumo alta più di cento metri che si vedeva dai paesi vicini. Un operaio che lavorava lì, all’Italcoffer, dove alcuni anni prima in un analogo incidente aveva perso la vita Simona Caretti di poco più di vent’anni, morì dilaniato.
Conti mi fece sapere che il padre e la madre del ragazzo avevano piacere di vedermi, affinché raccontassi in televisione la maledetta storia che gli aveva rapito Giuliano. Affinché simili tragedie non rapissero altre persone, giovani o più grandi d’età.
Arrivai in quella casa modesta, sotto un acquazzone che veniva giù dalle montagne attorno, sbattendo gli alberi con scrosci arrabbiati.
La madre mi accolse chiedendomi se volevo qualcosa da bere, poi mi mostrò una fotografia che ritraeva il suo ragazzo. “Il suo sorriso mi manca come l’aria, la sera mi veniva in braccio, la sera voleva le coccole, era un ragazzo di 23 anni, mi manca molto”.
Il padre sospirò come volesse raccogliere le ultime forze. “Era un ragazzo che forse aveva, io lo chiamerei quasi un difetto, era troppo onesto. Le racconto un fatto, uno dei tanti. Giuliano aveva una grandissima passione per le macchine da corsa. Un giorno parte di qua, con il sacco a pelo, per andare a Imola a vedere delle prove libere, mi sembra provasse la McLaren. Il ragazzo arriva ad Imola, prende il biglietto per stare ai bordi della pista due o tre giorni, dormendo nel sacco a pelo, sa no come fanno i ragazzi? Arriva al botteghino, si fa tutta la fila, prende il biglietto, poi una volta entrato, si accorge di aver ricevuto per sbaglio cinquantamila lire in più. Allora ritorna indietro, si rimette in coda alla fila nuovamente fino ad arrivare al botteghino e lì riportare quel che non gli spettava: guardi che mi ha dato cinquantamila in più, eccole. Insomma, le dico soltanto questo per descrivere mio figlio”.
L’uomo prende forza. «Altri ragazzi continuano a saltare in aria, da queste parti, lo sa? Nell’ultimo caso, se non si aprivano quei portelloni all’esterno, succedeva una carneficina vera e propria, non undici feriti, ma succedeva una carneficina, è andata bene, no? Adesso aspettiamo che la storia si ripeta un’altra volta ancora, poi magari qualcuno deciderà di fermare tutto. Vedendo quello che sta succedendo dico: ma dove stiamo andando? Veramente pensiamo solo ai soldi e basta, no? Tanto ce n’è di gente al mondo talmente tanta… . Poi ormai arrivano i marocchini, albanesi, dappertutto, se non abbiamo più gli italiani disposti a tutto, mettiamo quelli, quelli lavorano dappertutto non capiscono niente, poi gli fai vedere i soldi, loro anche se non li metti in regola, tanto noi guadagniamo e basta, no? L’importante è guadagnare, andare in giro con i macchinoni no? E con il portafoglio pieno, o no? Queste sono le cose che contano, o no? L’importante è tutto questo ormai, al giorno d’oggi”.
L’uomo si alzò verso il frigo, lo aprì e lo richiuse. “Mi deve scusare ma devo dirle di quel giorno. Squilla il telefono, vado a rispondere, alzo la cornetta e dall’altra parte mettono giù. Poi suona un’altra volta, e non volevo neanche rispondere, pensando ad uno scherzo come succede spesso. Per educazione è meglio che qualcuno risponda e lo fece mia moglie. Sollevò la cornetta e la sentii subito urlare: è scoppiato tutto, sono tutti all’ospedale”, e allora urlo: e Giuliano? e Giuliano? Prendo la macchina e così, di qua, da Nibbio, prendo la strada per Verbania, e corro verso l’ospedale. Nella strada tremavo tutto perché avevo ben presente cos’era successo cinque anni prima, e allora ho iniziato ad urlare dentro la macchina: Giuliano no, Giuliano, Giuliano no. Furono gli attimi più lunghi della mia vita, poi arrivo nel corridoio del pronto soccorso e lì mi viene incontro una ragazza con le braccia aperte, così, e lì ho capito tutto… Ho capito tutto.
Mi viene incontro un’infermiera con la siringa in mano, un’altra con le gocce e allora ho sbattuto per aria tutto quello che c’era da sbattere, ho buttato via siringhe e i bicchieri dappertutto. Cosa dovevo farmene delle gocce o delle siringhe? Cosa potevano togliermi ormai? Non avevo più niente… Avevo perso tutto.
Poi, una volta ritornati a casa, ci telefonarono chiedendoci i vestiti per vestirlo, poi dopo ci telefonarono nuovamente dicendoci che non volevano più i panni perché era impossibile vestirlo. Il medico diceva che era meglio non vederlo, perché così lo avremmo ricordato com’era, perché per il novanta per cento era carbonizzato. Aveva rimasto di buono, soltanto i piedi.
Ecco, io l’avevo sentito andare via da casa il mattino, verso le otto, per andare a lavorare, e ce lo hanno dato il giorno dopo Santo Stefano in una bara sigillata.
Era un pomeriggio del 23 dicembre, poco prima del Natale del 1999. Giuliano Valdi aveva 23 anni e della vita sognava le cose semplici.
Termina qui la Ballata di Giuliano. Giuliano un ragazzo caduto sotto il segno di un crimine di pace. Insieme a un esercito senza fine, di lavoratori caduti, che cadono e cadranno. La grande vergogna che aveva fatto in Italia, nei cinque anni dal ’95 al 2000, 170.000 invalidi permanenti e 6000 morti.
Ora dormono, nella loro spoon river. Senza croci e memoria.
Geme il racconto italiano, nei teatri di una spoon river dell’olocausto quotidiano, dove i morti non riposeranno mai sulla collina, ma in fosse comuni o dispersi nel fango, senza lapidi, epitaffi o preghiere. Rantola il racconto italiano sugli incidenti nel lavoro e su quelle vittime di ogni giorno, dimenticate, sconosciute e ammazzate senza soluzione di sosta, ogni giorno che passa. In media, da anni, tre-quattro morti al giorno. Massacrati, travolti, calpestati, decapitati, schiacciati, ustionati, falciati, bruciati vivi, soffocati, fulminati, gasati, stritolati, precipitati. E chiamati vittime delle morti bianche, perché non lasciano traccia.
Avevo iniziato quel viaggio italiano su sfruttamenti, vessazioni, sfortune e ingiustizie, dove per un pezzo di pane si baratta la vita. Storie amare, violente e maledette, da far serrare i pugni nelle tasche. Cronache intrise di grumi di sangue. Menomazioni aberranti, blasfeme, in un corollario di lutti in nome del lavoro di questa società che ama definirsi civile, nel cui nome si accetta, come dogma moderno, la competitività economica a qualsiasi costo.
Bum, bum, stramazzano al suolo i lavoratori in Italia. Giuliano Valdi, smerigliava macchinette da caffè.
Salvatore Giannella, giornalista professionista dal 1974, è nato in Puglia nel 1949. Vive e lavora a Milano dal 1975. Studi classici, laurea in lettere moderne. È sposato, ha due figli e due nipoti. Diventa pubblicista collaborando con il settimanale «Oggi». Dopo aver partecipato a Genova all’esperimento di un giornale in cooperativa, «Il lunedì», nel 1975 è chiamato all’«Europeo» da Tommaso Giglio, e diventa direttore del settimanale dieci anni dopo, dopo la pausa di un anno (1984) nella direzione di "Genius", il mensile scientifico dell'Espresso. Nel 1986 viene scelto da Giorgio Mondadori per dirigere «Airone», il primo e più diffuso mensile di natura e civiltà. Lascia «Airone» nel 1994 e crea l’Editoriale Delfi, struttura specializzata in
progetti ed eventi, servizi e realizzazioni per l’editoria e per l’economia dei turismi. Nel 1999 scrive il libro "L’Arca dell’Arte", in collaborazione con lo storico pesarese Pier Damiano Mandelli, per raccontare la storia del soprintendente delle Marche che, nel corso della seconda guerra mondiale, diede rifugio e salvezza nel Montefeltro a migliaia di opere
d’arte. Allo stesso argomento dedica la sceneggiatura del film-documentario per Rai Educational "La lista di Pasquale Rotondi" che vince il premio della Presidenza della Repubblica all’Art Doc Film Festival di Roma 2005, come «miglior film dedicato all’arte italiana». Per la stessa Rai Educational scrive la sceneggiatura del film "Odissea negli abissi" dedicato a Vassilj Arkhipov, il capitano della marina sovietica che durante la crisi dei missili a Cuba con il suo NO al lancio di un missile atomico dal sottomarino assediato evitò lo scoppio della terza guerra mondiale. Dal 1997 è tra le principali firme di «Oggi» (Gruppo Rizzoli - Corriere della Sera) per i temi della cultura e delle scienze. Tra i riconoscimenti ricevuti, il premio Zanotti Bianco (1978) e, dieci anni dopo, il premio dei Club Unesco. Nel 2007 ha ricevuto a Rimini la medaglia d’oro del comitato scientifico internazionale del Centro Pio Manzù, presieduto da Mikhail Gorbaciov, «per aver alimentato la mente degli italiani chiarendo preoccupazioni, scovando personaggi e scavando nella storia e nelle storie, creando sostegni con racconti carichi di realtà e di favola». Paulo Coelho lo ha salutato come «cronista della luce». Ama Italo Calvino dal quale ha raccolto l’invito a illuminare «personaggi e mondi che tenebre non sono e a dar loro forza». Nel 2008 esce da Chiarelettere (www.chiarelettere.it) "Voglia di cambiare", il diario di viaggio nell'Europa eccellente che ha risolto problemi che i nostri politici non risolvono da decenni. Nel 2009 ha pubblicato, per Allemandi editore, “I Nicola”,
storie straordinarie di restauri d’arte nella storia di una famiglia che,
oltre a dare lavoro a metà del paese in cui opera (Aramengo, tra Torino e Asti) ha il merito di aver cancellato la triste fama di quel borgo dove i severi giudici sabaudi spedivano al confino i falliti (da qui la dizione popolare “andare a ramengo”, cioè fallire, andare in malora). Oggi ad Aramengo vanno i capolavori dell’arte, da Giotto a Picasso, per ritrovare colori e salute. Nella primavera 2010 sono usciti due libri da lui curati: "La valle del Kamasutra", di Tonino Guerra, Bompiani, un volume antologico per festeggiare i 90 anni di quel grande poeta e sceneggiatore; e "Consigli per un Paese normale", di Enzo Biagi, Rizzoli, raccolta dei dialoghi tenuti da Giannella con quel maestro di giornalismo.
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