colloquio con lo scrittore CARLOS MONTEMAYOR
Foto: The Kassandra Project
Nessuno ne parla se non quando il subcomandante Marcos ( ormai sparito da giornali e Tv ) accende la pipa attraverso il passamontagna. O quando i maestri di Oaxaca fanno tre mesi di sciopero per le paghe da fame e il governatore infuriato fa sparare sulla folla. Ogni giorno le cronache messicane registrano episodi minuti; con parsimonia affiorano nei giornali delle capitali. Due o tre indigeni uccisi, non si spiega bene perché. Carlos Montemayor è lo scrittore che guarda i titoli con occhi rassegnati:. ” Non scrivono nemmeno i nomi…”. Quindici incappucciati hanno attaccato una colonna militare ne Guerrero. Due soldati caduti. I, governatore tira le orecchie ai giornalisti: ” Non dite che si tratta di ribelli. I ribelli non esistono. Solo delinquenti “. Sembra l’inizio del romanzo di Montemayor pubblicato anni fa da Marco Tropea: ” Guerra nel paradiso “. Il paradiso è la spiaggia di Acapulco, ma pochi chilometri dopo si alzano le montagne bollenti del Guerrero che scotta dove la storia non cambia.
Montemayor ha lavorato dieci anni attorno alla figura di un maestro di campagna: Lucio Cabana. Divideva in silenzio la protesta dei contadini avviliti dalle rapine dei politici e dei loro vassalli. Avevano perso l’identità dei padri per abitare villaggi senza luce, acqua, solo baracche. Pochi pesos al giorno di paga. Protestano ma la protesta viene considerata insulto alla dignità nazionale. Offende i turisti e per salvaguardare l’incanto di Acapulco l’esercito organizza una trappola nella gola di Aguas Blancas: fermano i loro camion sparando. Morti e sparizioni senza ritorno
Anni prima il maestro Cabana riceve in classe la visita di un sindacalista: aspettava un leader indigeno per un comizio di protesta. Ma la polizia blocca la strada: ” Dica lei due parole…” Cabana è uomo d’ordine, non vuole rubare un minuto di lavoro allo stato patrigno. Ma nell’intervallo lascia la cattedra e cammina verso la pedana dell’oratore. Cominciano gli spari. I militari hanno l’ordine di mantenere la quiete chiudendo ogni bocca. Da quel momento la vita del maestro cambia. Scappa e organizza la guerriglia dei poveri. Cerca di riunire proteste lontane: Oaxaca, Puebla, Chiapas. Facce di contadini che si somigliano, ma parlano lingue indiane diverse. E’ la difficoltà. L’ultima mappatura della Diversità Culturale del Messico risale al 1998: individua gli indigeni che parlano ” anche ” o ” soltanto ” la lingua materna: sono quattro milioni. Mentre altri sei milioni mescolano l’idioma dei padri allo spagnolo. In tutto undici milioni, più o meno il 10 per cento della popolazione del paese.
Nella babele non si capiscono. Il problema resta il numero delle lingue: ne sono rimaste 62. Nel novecento sono sparite quaranta lingue, quaranta tradizioni disfatte.. Trasferimenti nelle città, emigrazione negli Stati Uniti. Villaggi rimasti vuoti o mangiati dalla speculazione. Di alcuni popoli sopravvivono pochissime testimonianze isolate o ripescate dai ricercatori nelle periferie delle città. Solo due lingue restano l’ uso quotidiano diffuso: il maya e il nàhuatl, un milione e mezzo e due milioni e mezzo di uomini e donne che continuano con l’amerindo. Attorno ad Oxaca tre lingue illanguidiscono l’ abitudine di ventimila individui. Ecco perché l’impresa del maestro rurale Cabana non è stata semplice in Guerrero. Predicare col rischio di non farsi capire. Intrecciare rabbie con parole diverse. Dalla capitale salgono comunisti eruditi. Non accettano di mescolare la loro battaglia alla rivolta di contadini analfabeti. Considerano il marxismo una formula misteriosa e lontana dalla loro quotidianità. Cabana va avanti da solo coi suoi straccioni. Facce coperte da maschere cucite in qualche modo come nei giorni di carnevale. Finisce nel ’74: ucciso in un’imboscata per il tradimento da chi non ha resistito alla tortura. E i militari proclamano la vittoria: ” Un gruppo di delinquenti terrorizzava il popolo. Giustizia è fatta “.
In Italia è uscito un altro libro di Montemayor: ” Chiapas e la rivoluzione indigena “. Passato che ritorna, storia di Juan Lopez, ” re indio “. Nel 1712 camminava con una sacca piena di zucchero da vendere al mercato. Coinvolto in un massacro spagnolo, reagisce. Pianta il bastone nella terra e lo trasforma nell’arma che spazza via i soldati di Madrid. Lo prendono, lo impiccano, ma nella fantasia popolare non è mai morto. Ogni tanto riappare fra le gole del Chiapas con lo zucchero a tracolla. E’ diventato il simbolo di un problema mai risolto e della voglia contadina di non rinunciare alla dignità. Il subcomandante Marcos lo indica come sintomo della cultura indigena che stravolge la cultura occidentale. ” Passato, presente e futuro hanno per noi una collocazione ordinata – parole di Montemayor, amico di Marcos negli anni dell’università. Il passato alle spalle, il futuro davanti, il presente: sono le parole che sto scrivendo. Nel mondo indiano il passato può essere a fianco del futuro e compagno del presente. E per leggere la disperazione di chi trova le porte sempre chiuse bisogna tener conto di una prospettiva che la nostra civiltà confonde con la magia.
Marcos studiava disegno grafico, la famiglia era buona. E’ salito nel Chiapas per fare la rivoluzione, ma poi ha capito che gli indigeni non capivano la sua rivoluzione. Avevano in mente altre cose e le ha ascoltate. Sette anni di silenzio fino a quando la notte dell’ultimo giorno dell’anno 1993 ha guidato gli incappucciati a San Cristobal de Las Casas, capitale degli agrari, dei militari e dei turisti stranieri arrivati in Messico per godere il Capodanno. Qualche sparo in aria, nessun ferito e un lungo proclama per spiegare cosa succede attorno alle vacanze. Finalmente giornali e Tv d’Europa e dell’altra America hanno scoperto che Il Chiapas non era solo un depliant.
Allora il potere centrale accerchia, offusca e quasi cancella la rivoluzione culturale indigena sulla quale Marcos soffiava. Anche la Chiesa cattolica si è schierata per convenienza dalla parte dei presidenti della capitale. Il nunzio apostolico, monsignor Prigione, non accettava che il vescovo di san Cristobal, capitale del Chiapas, stesse dalla parte dei contadini indigeni sempre più emarginati dagli appetiti di alti funzionari i quali si impadronivano delle loro terre con l’esercito alle spalle. Monsignor Samuel Ruitz aveva applicato i principi del Concilio Vaticano II: ogni chiesa locale ha diritto a man tenere lingua e cultura nel rispetto del Vangelo. Ruitz risveglia il popolo indigeno con 8 mila gruppi di catechismo. Parlano la stessa lingua e discendono dagli stessi riti di fede un po’ diversi da quelli di Roma. Ruitz viene attaccato con le armi dei latifondisti infuriati. Il nunzio Prigione non solo non lo difende ma fa capire che è una testa calda. Appena Ruitz compie 75 anni, subito in pensione: due righe gelide dal Vaticano. Lo sostituisce il vescovo ausiliare, purtroppo con le stesse idee: subito spostato mille chilometri a nord. E la restaurazione cancella gli 8 mila gruppi di catechismo, ripristina gli obblighi di sempre. Indios di nuovi soli.