Fonte: www.adnkronos.com
“Mozzeremo le mani di chiunque vada a votare”, questo è stato il messaggio dei Taliban agli afghani nei giorni delle elezioni presidenziali. Lo stesso messaggio erra stato trasmesso ai votanti iracheni dagli insorgenti e dai gruppi affini ai Taliban prima della prima elezione generale in Iraq, nel 2005. Ricordo bene quel tempo. Lavoravo nella commissione elettorale assieme ai miei colleghi iracheni e internazionali. Impegnati nell’affrontare tutte le “impossibilità”, consapevoli che quel lavoro rappresentava una chance storica per garantire delle elezioni autentiche e libere per gli iracheni. Motivati all’idea di contribuire a che una maggioranza predominante potesse scegliere il proprio governo per la prima volta nella loro vita. Una notevole sfida professionale, inoltre, dati gli alti standard (unici nel Medio Oriente) preposti per garantire la legittimità delle elezioni. I media regionali arabi, liderati dalla famosa Aljazeera, erano coinvolti in una enorme campagna, che privilegiava la voce di coloro che rifiutavano le elezioni come principio, ancora prima che nella pratica. Le consideravano illegittime, perfino Heram: contrarie alla religione. L’argomento di fondo, molto simile a quello usato attualmente dai Taliban, era che nessuna elezione può avere luogo sotto occupazione straniera. Una osservazione ridicola per le persone che lavoravano nella commissione elettorale: in effetti, molte di esse, includendo il responsabile capo, si opponevano alla presenza militare americana in Iraq. Non meno importante era il fatto che in Iraq, in Afghanistan, e in quasi tutto il Medio Oriente, non esistevano elezioni, per lo meno non elezioni reali, nemmeno in assenza di occupazione straniera. Usualmente, le elezioni in paesi “indipendenti” come Siria, Arabia Saudita, Qatar, Iran, Egitto, Tunisia, ed altri, suscitavano perplessità e sospetti: nessuno, insomma, è convinto che siano elezioni credibili e libere.
Ricordo che la fatwa del “mozzare le mani” si diffuse in tutto il paese. La gente, al meno nelle aree più destabilizzate, era obbligata a prenderla sul serio. In ufficio ci chiedevamo: se la punizione per chi vota è il taglio delle mani, quale potrebbe essere la punizione per noi, che organizziamo le elezioni? Al di là dell’ironia, non perdevamo tempo a cercare una risposta. Avevamo semplicemente deciso di limitare la possibilità di avere le mani o altre parti del corpo mozzate, standocene rinchiusi in ufficio durante le ultime due settimane prima della data delle elezioni. Lavoravamo nella sede della iper-protetta green zone, un’area per nulla verde, sede degli edifici più importanti dell’Iraq pre e post-occupazione. Il nostro locale era stato costruito dal regime di Saddam come parte della struttura di uno dei suoi organi più sensibili, l’industria militare. Si trattava di un blocco di concreto che la luce del sole e, ovviamente, le bombe di seconda mano degli insorgenti, potevano solo minacciare di penetrare nelle sue minuscole fessure e poche finestre. Non fosse stato per l’orologio che avevo sempre al polso, non avrei potuto avere alcun senso del tempo, o se era mattina o sera. Per fortuna, si trattava di un lavoro di gabinetto. Il fatto di non dover lavorare sul campo ha risparmiato la mia vita dagli “occhi nemici”. Purtroppo, questo non fu il caso di Ahmed, un membro del team iniziale delle elezioni. Questo giovane uomo dal viso abbronzato e occhi nerissimi, con un master in legge, era pieno di entusiasmo e dedizione per il lavoro. Gestiva l’ufficio principale all’ovest di Baghdad, un’area in quel tempo roccaforte di Al-Qaeda ed altri gruppi insurgenti. Data l’importanza della sua posizione, Ahmed doveva recarsi nel nostro ufficio ogni giorno per ricevere istruzioni e discutere insieme dei problemi. Gli suggerivamo di prendere ogni precauzione possibile all’arrivo e alla partenza. Eravamo stati avvertiti di persone che osservavano chi e con quali macchine entravano nella green zone. Il capo di sicurezza gli consigliò di alternare i percorsi che lui e le sue guardie del corpo prendevano ogni volta per venire a vederci. Ma anche, possibilmente, di cambiare auto. Lui soleva rispondere con un sorriso, ed un silenzio fiducioso. Amava il suo lavoro, forse anche il rischio implicato in esso. Quindici giorni prima delle elezioni, Ahmed e le sue guardie del corpo sono stati uccisi da miliziani di Al-Qaeda in una delle strade principali di Baghdad. Furono fermati, gli venne richiesto di mostrare la carta d’identità. Non si sa quale documento lui abbia mostrato, ma è stato sufficiente per convincerli della sua “pericolosità”. Tra virgolette perché Ahmed era mite e perbene. Lo hanno trascinato fuori dalla macchina, colpito con colpi di pistola. C’è stato un tentativo di decapitarlo, che non andò a buon fine per qualche motivo. I loro corpi furono lasciati per strada, e i miliziani scomparvero.
Le elezioni sono andate avanti. Elezioni libere per la prima volta nella storia dell’Iraq, elezioni libere comparate agli standard regionali. Alcuni dei leader eletti erano fautori della linea dura che si opponevano all’occupazione. Alcuni di loro appartenevano addirittura al regime di Saddam. Il risultato fu apprezzabile anche per gli standard occidentali. Un po’ di confusione sul registro elettorale non impedì i votanti di mettersi in fila davanti ai seggi fin dal primo mattino. Né sortirono effetto le minacce dei fondamentalisti, a eccezione delle aree dove avevano le proprie roccaforti (principalmente nelle zone sunnite). Ma anche in questi contesti, i gruppi affini ai Taliban persero la propria influenza durante la seconda elezione alla fine del 2005, e la gente votò in massa per la prima volta.
Molte persone si pentirono di aver votato, non perché credessero nell’argomento dei fondamentalisti, ma a causa del tipo di politico che avevano finito per eleggere. Questo è il normale rimpianto. Potrebbe succedere ovunque di scegliere le persone sbagliate. Ma con i Talibani e gruppi affini, la questione è diversa: il problema per loro riguarda l’idea che gli individui decidano per se stessi. Un evento inusuale in società dove l’individuo non esiste al di là del gruppo. Nonostante questo, ciò che potrebbe risultare ancora più frustrante delle minacce dei Taliban è che alcune persone reagissero positivamente. Avendone timore, esse li legittimano (inconsciamente, ma di certo perché privi di una alternativa sicura) ad imporre un certo comportamento. La legittimità talibana è collegata alla loro abilità di imporsi, uccidere e giustificare l’omicidio attraverso un discorso ideologico rivolto alla cultura e tradizioni della gente. Il loro argomento che nessuna elezione legittima può essere svolta sotto occupazione straniera non è supportato da un controargomento razionale; dato che il potere del discorso qui, e quasi ovunque, non deriva dalla razionalità quanto dall’abilità di imporre il potere stesso.
Molti politici e intellettuali occidentali hanno affrontato superficialmente la natura del conflitto nel mondo islamico, specialmente in queste società composte da molteplici gruppi linguistici o etnici o settari come l’Afghanistan e l’Iraq. Fino a un certo punto, l’immagine della gente del centro e dell’est europea che celebrava la propria libertà dai regimi totalitari demolendo il Muro di Berlino era ancora molto presente nella mentalità occidentale. Si voleva riprodurre la stessa immagine nel mondo islamico. E’ vero che la gente aspira alla libertà, ma il significato di questa è diverso e non può essere de-contestualizzato. Nel mondo islamico di oggi, la parola “libertà” non ha una forte risonanza. Viene comunemente usata nel discorso politico ed ideologico dei movimenti fondamentalisti ed estremisti, molto più che in quelli presuntamente liberali (se esistono). In questo discorso, la libertà è definita come l’emancipazione dalla tirannia straniera, in modo da sostituirla dalla tirannia “nazionale”. E’ la libertà dal dominio dell’Altro. Continua, invece, ad essere impensabile la questione della libertà all’interno del proprio gruppo. La issue di fondo oggi è l’identità. Riguarda chi siamo come collettività e come dovremmo agire. Quando invece la issue di fondo è la libertà del gruppo, la libertà individuale sarà ignorata.
Anche se necessarie, le elezioni non sono una cura magica. Dopo tutto, si tratta di un sistema alieno ad una società come l’afghana, e ci vorrà un lungo tempo prima che vengano assorbite come pratica genuina. L’autorità tribale ancora robusta, la classe media che non esiste ancora, altissimi tassi di povertà e analfabetismo. Che tipo di leader possono emergere da una società simile all’Europa del primo medioevo? Le elezioni produrranno un’élite di politici corrotti, demagoghi, latifondisti ed estremisti religiosi. I leader razionali e (anche solo relativamente) onesti non sono ancora apparsi sulla scena perchè la nazione, un concetto più ampio e più forte della tribù, dell’etnicità, della setta, non si è ancora consolidato. Pertanto, non sorprende che questo tipo di democrazia con i suoi particolari meccanismi e relative tradizioni produrranno leggi come quella recentemente approvata in Afghanistan sotto la pressione dei leader religiosi sciiti: si riconosce legalmente come diritto del marito il privare del cibo la propria moglie in caso lei si rifiuti di fare sesso con lui. Nella tradizione sunnita pashtun, questa pratica non ha bisogno di alcuna legge per essere legittima. La “democrazia” sarà sfruttata da non-democratici come Muqtada Alsadr in Iraq. Eppure, anche se inevitabile, questa strada deve essere percorsa. Se questa mezza-democrazia si arrende, i gruppi affini ai Taliban risulteranno l’unica autorità possibile. Inoltre, le elezioni sono necessarie come meccanismo migliore e meno pericoloso per gestire sia la questione dell’identità, sia la questione della libertà, in questo ordine.
In passato, il conflitto identitario ha prodotto ogni forma di esclusione. La collaborazione non è una tradizione culturale nella idiosincrasia della regione o nella sua struttura socio-politica. La “coesistenza” ha assunto le forme di integrazione forzata o sottomissione. Nelle pratiche più liberali, le minoranze erano tollerate socialmente, ma veniva loro negato qualsiasi peso politico reale. In nessun senso il momento attuale può essere considerato come una fase di tolleranza. I massacri settari in Iraq, Pakistan e Afghanistan, e la violenza settarea in Libano ed Egitto, sono chiari esempi della tendenza attuale. Dal fallimento del progetto di stato-nazione moderno e il crollo delle ideologie universali, la gente sta valorizzando le loro identità pre-moderne. Si tratta di un problema culturale. E, non da meno, di un problema politico radicato nelle frontiere artificiali recenti tracciate dai poteri coloniali che perseguivano I propri interessi. L’Afghanistan moderno è stato originalmente stabilito come una zona tampone fra grandi potenze regionali come Cina, Russia, India (e poi India e Pakistan), e Iran. Il paese non aveva una esistenza autonoma; serviva piuttosto ad evitare il confronto face-to-face fra i poteri esterni. Quindi, l’Afghanistan è diventato un terreno di scontro di altri, e i vari gruppi etnici, religiosi e linguistici al suo interno sono diventati agenti dipendenti da uno sponsor esterno. A causa della mancanza di una cultura della coesistenza o per via di motivazioni geopolitiche, il paese è diventato alternativamente una zona di guerra o governata unilateralmente. Da sempre, i Pashtun, il gruppo più numeroso ma non maggioritario, hanno cercato di dominare gli altri. I Taliban, all’inizio fondati e finanziati da pakistani e sauditi, è un fenomeno pashtun e fondamentalista. Il suo pashtunismo è stato imbevuto di ideologia salafita islamica. Questa è un’altra caratteristica della politica della regione. Gli obiettivi diretti e più ambiti rapportati al potere e basati su motivi etnici o settarei o tribali sono stati coperti da un discorso universale sulla giustizia eterna.
L’Iraq moderno è stato, in larga misura, una invenzione britannica. Il suo dilemma ha sempre riguardato l’integrazione della diversità sociale nel contesto di una identità nazionale. Ma i diversi regimi non hanno cercato di raggiungere questo obiettivo attraverso meccanismi persuasivi che contribuissero a creare una narrativa nazionale e un quadro costituzionale accettato dagli arabi, dai curdi, dai turchi, dagli assiri, dai sunniti, dagli sciiti, dai cristiani e dai sabeti. C’era sempre una ideologia ufficiale che ignorava questa diversità, e che inoltre era priva di credibilità a livello culturale e sociale. Ecco perchè la storia moderna dell’Iraq è stata plasmata o da una brutale dittatura dipendente dalla forza come modo per governare (come è stato nel caso del regime di Saddam, che ha rafforzato il monopolio degli introiti sul petrolio per creare uno stato totalitario), o dal conflitto civile e dal caos in assenza di un governo centrale. Quando gli americani e i loro alleati hanno invaso l’Afghanistan e l’Iraq, molti intellettuali erano impegnati nel discutere la questione della libertà. Queste società, nonostante fossero ansiose di avere libertà, davano più importanza ala questione dell’identità. Quando manca la cultura della collaborazione, la coercizione diventa l’unico linguaggio disponibile per affrontare questo tema. Accumulandosi, la coercizione si intensifica e viene giustificata da una ideologia unilaterale come quella dei Taliban o del partito Baath. Quindi, le elezioni oggi sembrano il migliore meccanismo attraverso il quale gli interessi dei diversi gruppi possono essere rappresentati. Aiutano anche a sviluppare un sistema di partnership, compromesso, interscambio, e addirittura una pacifica partizione. Inoltre, le elezioni contribuiranno eventualmente a porre la questione della libertà.
Come hanno dimostrato le ultime elezioni municipali in Iraq, quando le paure collettive cominciano a sbiadire, la gente tende a votare per partiti non-identitari. E’ la paura dell’Altro, del passato, e del futuro, che priorizza l’identità collettiva a spese di quella individuale. L’attenuarsi di questi timori e l’aumentata consapevolezza della “impossibilità” dei metodi coercitivi porteranno a trattare la questione della libertà individuale all’interno delle collettività. Apparentemente, i leader etnici e settari preferiranno sempre enfatizzare ed esacerbare le paura per sopprimere qualsiasi richiesta interna o divisione. Nonostante ciò, quando questa politica perderà credibilità e aumenterà la delusione nei confronti dei leader tradizionali, ci sarà una maggiore tendenza a ribellarsi e a proporre cambi. Le dimostrazioni in Iran dopo le ultime elezioni presidenziali sono state un buon esempio di questa delusione. Ovviamente, non si tratta di una trasformazione dall’oggi al domani e non sarà priva di costi, ma è un conflitto necessario per il quale non si può trovare una scorciatoia artificiale.
Quando il “voto” diverrà proprietà di un solo individuo, le minacce dei Taliban non saranno più efficaci. La visione talibana coniuga il tribalismo con l’islamismo in una ideologia militante, per ricoprire una identità collettiva. Cerca di mantenere i vecchi meccanismi, dal momento che garantiscono la sua sopravvivenza. La corruzione e il fallimento della nuova élite politica di Kabul, favorisce i Taliban. Eppure, le elezioni riguardano non tanto scegliere dei buoni leader, quando insegnare alla gente a scegliere per conto proprio. Questo è il miglior risultato atteso, al meno per ora. Ciò che i Taliban vogliono è perpetuare la paura, in modo che questa stessa paura plasmi la consapevolezza della gente ed impedisca loro di scorgere una qualsiasi possibilità di emancipazione dalla tirannia della collettività. I Taliban vogliono punire chi vota perchè cercano di monopolizzare la rappresentanza della identità collettiva. Non si deve sottovalutare la loro abilità di convincimento, perchè essi usano la “logica” e il linguaggio che la società conosce. Questa società non ha ancora operato una scelta finale circa l’accettazione o il rifiuto del discorso talibano. La gente è nel mezzo della nebbia confusa di questa trasformazione ancora inaffidabile. Le incertezze hanno portato alcuni di loro a provare nostalgia per la miseria del passato: un passato di cui almeno si conoscevano le regole e i limiti. Una sensazione simile è stata vissuta da molti iracheni, terrificati dalla violenza. Ricordavano il proverbio: “il cattivo conosciuto è meglio del buono che non conosci”. In larga parte, la strategia dei Taliban consiste nello scommettere su questo tipo di sensazione.
Pertanto, la probabilità che il “passato” vincerà sembra fattibile quanto la vittoria del futuro. Ma l’individuo vorrà sempre un altro tipo di “salvezza”, insisterà in tentativi più “avventurosi” prima di perdere completamente la speranza. Se lui o lei riuscirà a raggiungere l’altra riva, non ci sarà solo libertà dalla paura, ma si potrà reputare i Taliban responsabili delle loro azioni. Ciò di cui ha bisogno la gente è credere che un buon cambio è possibile: una speranza che può essere promossa da qualsiasi elezione, ma non solo dall’elezione stessa.
(traduzione di Azzurra Carpo)
Harith Al-Qarawe è un ricercatore in scienze politiche e mass media. Autore di saggi in arabo e in inglese su fenomeni socio politici del mondo arabo, collabora con giornali di Amman e degli Emirati Arabi Uniti.. Master in Scienze Politiche all’ università di Bagdad e master sulle Comunicazioni alla Leeds University.