Manifestazione degli ex lavoratori Unicoop Tirreno di Soccavo avvenuta lo scorso 3 dicembre 2010
Ci sono storie che non possono terminare con la pubblicazione di un articolo. La vicenda dei diciassette lavoratori campani già dipendenti della Unicoop Tirreno, licenziati dopo la cessione dei punti vendita ad altre catene della grande distribuzione che li hanno chiusi, è una di quelle. Se n’era parlato in due occasioni a dicembre 2010 (gli articoli sono
qui e
qui) e ancora poco tempo fa avevamo di nuovo dato spazio alla questione pubblicando una
lettera. Ma a tutt’oggi risultati concreti per i disoccupati non ce ne sono. E il punto della situazione lo fa ancora Carlo Vuolo, delegato a rappresentare gli ormai disoccupati campani.
Rispetto alla sua lettera pubblicata qualche giorno fa, è cambiato qualcosa?
«A dir la verità, sono stato contatto per vie private dalla dottoressa Vanda Spoto, la presidentessa di Legacoop Campania. Mi diceva che si sarebbe impegnata a sostenere la nostra battaglia, per quanto ammettesse di non poter fare granché. Nel frattempo è accaduto un altro fatto: al nostro avvocato viene spedito un fax dallo studio legale Schembri e Bertolini, che rappresenta la Unicoop Tirreno. Ci è stata così sottoposta una proposta di 10 mila euro a titolo non di risarcimento, ma si tratterebbe di una transazione che non riconosce neanche parzialmente delle nostre istanze. Se accettassimo, dovremmo rinunciare insomma a qualsiasi richiesta nei loro confronti, prima tra tutte il posto di lavoro, l’unica nostra vera rivendicazione».
Dunque la vostra decisione è di non accettare questa proposta?
«No, non accetteremo. Abbiamo parlato con il nostro avvocato e abbiamo deciso che andremo avanti perché non abbiamo bisogno di carità, ma di certezze. E la certezza ce la può dare solo il lavoro».
Prospettive di reinserimento lavorativo al momento ne avete?
«No. Io, a 47 anni, sto andando in giro a chiedere un impiego, ma vengo guardato come se fossi in alieno. Prima di tutto, dalle nostre parti, in Campania, lavoro non ce n’è, ma soprattutto alla mia età sembra che debba rinunciare a qualsiasi possibilità di lavorare. Sono giovane per la pensione, ma sono vecchio per una nuova occupazione».
Per quanti anni ha lavorato all’interno del settore della cooperazione? E con quali incarichi?
«Ci ho lavorato venticinque anni circa, dalla metà degli anni Ottanta fino al 2009, quando siamo stati ceduti e licenziati. Ho sempre fatto un po’ di tutto, ricoprendo il ruolo di addetto alle vendite, cassiere, magazziniere e qualcos’altro. Da noi c’erano figure professionali specializzate o con una maggiore specializzazione in un settore, ma il nostro tipo di cooperativa, soprattutto agli albori, era che tutti davano tutto. E noi ci credevamo perché credevano in valori come la solidarietà, l’utilità pubblica. Andando avanti però ci siamo accorti che questo sistema è stato sostituito da logiche finanziarie e bancarie che hanno fatto perdere i valori da cui eravamo partiti portando nell’agro sarnese-nocerino la Coop, che ai tempi dava lavoro, stipenti e legalità, cose non frequenti dalle nostre parti».
Prima che Unicoop manifestasse l’intenzione di vendere i supermercati in cui era impiegato anche lei, c’erano già stato segnali dei problemi che si sarebbero presentati?
«Nel 1998, quando c’è stato il passaggio da Coop Campania a Unicoop Tirreno, fummo contenti perché si realizzava un sogno: realizzare un’unica grande cooperativa, una sorta di grande famiglia accomunata da certi valori. Subito dopo ci accorgemmo che la realtà era differente perché, in dieci anni, solo all’inizio si videro interesse per i negozi e azioni convincenti di fidelizzazione della clientela. Ci siamo sentiti, a livello regionale, abbandonati ai nostri problemi e i punti vendita ne hanno risentito, a favore degli ipermercati. E si è passati sopra a nostre situazioni familiari molto gravi, che avrebbero meritato più considerazione, dopo la dedicazione che noi abbiamo dedicato al lavoro».
Dal punto di vista delle vertenze aperte tra tribunale del lavoro e azioni giudiziarie in corso, contate di poter conquistare qualche forma di risarcimento?
«L’unico risarcimento che vogliamo è il posto di lavoro, i soldi non ci interessano, altrimenti avremmo agito diversamente e magari avremmo presentato noi per primi una richiesta economica, senza attendere che ci venisse sottoposta. Pretendiamo solo chiarezza dal lato giuridico, soprattutto per quanto riguarda ciò che è successo dopo la vendita dei supermercati Coop alle realtà locali che hanno chiuso tutto e ci hanno licenziato (senza ancora aver ricevuto la liquidazione). Già ad Avellino e a Napoli i magistrati hanno detto che i lavoratori essere devono reintegrati in Unicoop Tirreno. Attendiamo dunque gli sviluppi perché, dopo tanti anni, rimango legato al mondo della cooperazione e vorrei vedere ben riposto il mio convincimento».
Quando sono stati aperti nuovi centri commerciali a marchio Coop in Campania, voi ex lavoratori avete manifestato pubblicamente. Contate di ripetere l’esperienza in futuro?
«Il 3 dicembre 2010 siamo stati a Napoli per dire all’azienda che non ci saremmo arresi. Tant’è vero che, dopo alcune azioni pubbliche, poi ci hanno ricevuto. Io, come delegato dei lavoratori, sono stato a un incontro in cui si era detto che c’era la volontà di risolvere il nostro problema. Tuttavia non sono seguite proposte concrete, neanche dopo un’udienza celebrata a Napoli il 13 gennaio successivo. Ai tempi però ci eravamo fermati e ci eravamo illusi che si potesse arrivare a una soluzione. Constatato che non è così, riprenderemo con la nostra lotta, per quanto preferisco non raccontare quello che abbiamo in mente di fare. Posso solo aggiungere che non escludiamo il ricorso allo sciopero della fame».
La vostra situazione si sta trascinando così a lungo tanto che è finito anche il sussidio di disoccupazione. Come riesce una persona che ha lavorato tanti anni ad andare avanti?
«Questa è una bella domanda. Le posso dire che, alla mia età, chiedere un aiuto economico ai genitori o a qualche familiare è quanto di più umiliante si possa pensare. Loro capiscono il mio disagio e non si tirano indietro, ma per me è devastante. Devo solo sperare di non ammalarmi, a questo punto, perché altrimenti è davvero la fine. Ho cercato di spiegare questa situazione ai miei ex datori di lavoro. E posso aggiungere che non ci interessa trovare responsabilità personali, vogliamo a questo punto solo ricostruire la nostra vita e quei valori in cui abbiamo creduto. Mi ripeto, ma è importante: possiamo farlo solo lavorando. Ritengo che i miei colleghi e io siamo vittime di un’ingiustizia, ma non vogliamo che qualcuno venga a chiederci scusa. Ridateci solo il nostro impiego. Non vediamo l’ora di ricominciare».
Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet,
cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non
necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)