A Locarno il primo giorno effettivo di festival è un giorno d’autunno con scrosci costanti di acqua e un’aria raffreddata. Anche Songs of love and hate è un film autunnale, invaso dalle piogge, la cui vicenda si dipana nel tempo di una vendemmia, una vendemmia non riuscita peraltro. Montagne e boschi, una volta di più in questo festival, la fanno da padroni. Avvolgono la scena del film della svizzera Katalin Gödrös, ovattandone o amplificandone, a secondo dei casi, l’eco, il senso e le conseguenze dell’azione. Amore, sesso e morte si intrecciano lungo tutta la narrazione, percorsa da amarezza e tensione costanti.
La storia è quella di Rico, di sua moglie e delle loro due figlie. La famiglia vive in una fattoria vinicola ai piedi delle alpi svizzere. Lilli, una delle due figlie, sta diventando donna e Rico è un padre turbato, che attraversa un momento difficile: non può guardare la figlia senza allontanarla; anche per proteggerla da se stesso e dal proprio desiderio. La figlia lancia la sua sfida silenziosa al padre attraverso gesti crudeli, come per riconquistarlo e per testarlo; e la madre (Ursina Lardi; brava) silenziosamente capta questa miccia invisibile, tenta di capirla, prova confusamente a disinnescarla; l’idea stessa di famiglia inizia così a vacillare in ognuno dei suoi membri. E nel frattempo gli sguardi parlano più dei dialoghi.
Solo un vicino di casa, un uomo in sedia a rotelle, sembra avere coscienza di cosa stia avvenendo e, come una Cassandra, sin dall’inizio, predice sventura. Mentre la sorella minore chiede di essere tenuta fuori “da questa merda”, non ha altro modo di chiamare una cosa che percepisce ma non riconosce e non sa spiegarsi.
Nel dipanarsi drammatico della trama, emerge una venatura quasi noir, con la sua violenza e le sue vittime, le più innocenti. E con il vino, un vino di pessima vendemmia, che scorre a fiotti come sangue.
Un giornalista ha definito la pellicola un horror della pubertà e la Gödrös ha ribadito di non aver voluto fare un film sull’incesto. Che perarltro non avviene mai sullo schermo, se non virtualmente, quando il padre utilizza il corpo della madre come medium sessuale tra sè e la figlia, in attento ascolto dal pianerottolo del primo piano. Forse trattasi più di un horror della famiglia, poichè tutti restano coinvolti nel gioco sadico di Lilli.
Per la regista quello che avviene tra padre e figlia non pertiene alla sfera dei cambiamenti e delle esacerbazioni della contemporaneità, ma è una storia arcaica; e la famiglia di Rico non sarebbe una famiglia malata, anche se basta un nonnulla per turbarne l’equilibrio.
Eppure l’archetipo freudiano non spiega e non giustifica quanto avviene nel film. Qualcosa non torna in questa sordida normalità di famiglia evoluta, se l’eros innesca un’escalation simile di violenza e di morte e lascia terra bruciata tutt’intorno. O forse dobbiamo ammetterere che la follia di quanto avviene in alcuni contesti familiari è tanto ordinaria da averci resi assuefatti e incapaci di riconoscerla?
Giampaolo Paticchio ha 37 anni. È un salentino trapiantato nelle Marche. Si occupa di filosofia, antropologia, immigrazioni e giornalismo partecipativo. Collabora a vari giornali.