Il viaggio di un giornalista è sempre per raccontare infelicità lontane: guerre, rivoluzioni, fame. Ma nel 2003 sono passato da Singapore con l’impegno curioso del far sapere ai lettori come un governo si arrangiava nell’affrontare la crisi che in quel momento tagliava le unghie alla tigri dell’Asia, paesi emergenti rappresentati con le parole di Salgari, padre di Sandokan. Singapore vive di tecnologia e commerci: importa e rivende. Vende qualsiasi cosa: è uno dei pochi posti al mondo dove la legge consente di comprare reni, polmoni da donatori consenzienti. Regola anche il costo degli acquisti misurandone l’importanza sulle “conseguenze fisiche e psicologiche” che il povero donatore deve sopportare. Se i paesi attorno languono sgonfiando gli affari, per galleggiare bisogna inventare qualcosa e Singapore inventa il turismo della cartolina. Il governo distribuisce alle famiglie tre milioni di cartoline con bollo incollato. “Quanti parenti e amici vivono in posti lontani? Manda due righe, invitali a tornare. Racconta come siamo cambiati, grattacieli e boulevards dove prima o poi correrà la Formula Uno e abbiamo salvato i boschi e i giardini della città. Tremila tipi di orchidee continuano a fiorire. La nostalgia dei tuoi cari non resterà delusa”.
Lo racconto, ma un solo articolo non vale un viaggio così lungo. Cerco altre curiosità sfogliando, nel mio alberghetto, il manuale che l’ente del turismo semina in ogni camera. Scopro che il monumento nazionale frequentato da due milioni di turisti è un grande albergo vittoriano: Raffles Singapore. Prezzi da brivido, val la pena dare un’occhiata. Il mattino dopo sono in coda nella fila C, turisti giapponesi. Nella fila A americani; fila B cinesi e indiani; australiani quelli della fila D. Guardare veloce, spiegazioni da guide robot. E poi chi capisce il giapponese? Decido di cambiare albergo: per due notti dormirò al Raffles anche se non è facile, il 75 per cento degli ospiti prenota da un anno all’altro. E un convegno politico-economico ha richiamato a Singapore manager e guru di stato da ogni parte del mondo. Un letto lo trovo, carissimo perché a piano terra, aperto sul giardino interno pettinato all’inglese. La colazione del mattino si annuncia col picchiettare leggero alla porta finestra di un cameriere che ha apparecchiato il tavolo sfiorato dall’erba. Terrazza dai riccioli liberty della Londra vittoriana. Un filo di rose di bronzo mi separa dalle verande accanto. E nella veranda accanto Henry Kissinger sta inzuppando il pane tostato nelle uova strapazzate, automaticamente, senza guardare, occhi che si perdono sull’Herald Tribune. Buon giorno, provo a dire. Sono italiano. Gli occhiali di Kissinger mi osservano con disattenzione. Italiano? Ero amico di Gianni Agnelli, la terribile notizia tre mesi fa… Torna subito al giornale con un sorso di caffè. Se ne va senza voltarsi per il saluto. Se il censo modesto di un giornalista fuori posto è umiliato da coinquilini altisonanti, resta il privilegio di vagare nell’albergo col privilegio dell’ospite che osserva con facoltà di commiserare le file A, B e C, quei visitatori che aspettano il tour col ritmo della vecchia catena di montaggio.
Come può un albergo diventare monumento nazionale? Lo capisco al bar dove gli aperitivi hanno la data di nascita sull’etichetta e un filo dorato la ricorda nel bicchiere sul quale poso le labbra. Dolce e forte. A dire il vero troppo dolce e troppo forte. Il barista sorride, ma non è una novità: tutti sorridono. Cominciano le spiegazioni: l’intruglio si chiama Singapore Sling e l’ha inventato un barman famoso tra il 1010 e il 1915. “Purtroppo la data resta incerta”. Guardo la fila americana mentre affronta lo scalone di legno che porta al secondo piano dove c’è un museo con reperti bene ordinati nelle teche di cristallo. La tazza nella quale bevevo il tè era la regina Elisabetta e il bicchiere di whisky di Bush figlio. “Povera gente, a loro non spiegano niente”.
Chi conosce davvero la storia per averla vissuta in famiglia è la signora Jennifer We, figlia del signor We e nipote del signor We, barista quando hanno inaugurato l’albergo un secolo fa. Passeggiamo nel tramonto afoso del giardino. Camminare per sgranchirsi le gambe fuori dal soffio freddo dei condizionatori. Ma l’umidità é insopportabile. La signora racconta dei francobolli, delle foto, delle 103 trasmissioni tv che i canali americani hanno dedicato al Raffles; delle lettere e dei conti mai onorati al bar. Non conti qualsiasi. A me lo dice perché posso scriverlo “senza rivelarne la fonte”, ma, insomma i grandi ospiti non sempre pagano. Ascolto con l’impressione di attraversare un mondo dove il tempo si è fermato, non nelle sale dai tappeti pesanti, abat jour ripescate in chissà quale magazzino di Londra; il tempo è invecchiato nelle abitudini di chi vive nell’albergo e considera ritmi e ricordi del Raffles la sola forma possibile di vita. Nostalgia inconscia di un passato che è solo bianco nella folla color miele che agita le rivoluzioni dell’Asia. Il mio diventa un viaggio immobile nella storia frivola che i libri non raccolgono. Albergo appena restaurato con saggia mentalità di revival. Siamo al quarto ritocco ma sembra stia per arrivare Kipling con in mano “Il libro della giungla”.
La signora We diventa l’abitudine dei miei aperitivi. La sua crocchia bianca-blu arriva riverita dal personale. Racconta del baronetto Raffles: per conto della Compagnia delle Indie compra questo angolo di paradiso nel 1819 per aprire la stazione commerciale di Singapore. E quando gli affari diventano importanti, il figlio aggiunge quattro bungalow di legno verso il mare. Racconta di Conrad: appena i turisti se ne vanno posso dare un’occhiata alle carte del museo. Joseph Conrad (vero nome ungherese, lunghissimo nel registro degli ospiti) è un capitano che fa la spola con la sua nave tra Singapore e Sumatra. A volte attraversa tifoni che fanno paura, eppure si affaccia al bar dei bungalow con l’eleganza trascurata che torce la bocca dei funzionarti impettiti della Compagnia. I primi appunti di “Tifone” cominciano nelle “camerette così così dell’albergo Raffles”. Una sera al bar ascolta i discorsi di due armatori. Stanno sfogliando il quotidiano The Straits Times: c’è la notizia di una nave abbandonata dall’equipaggio. Va alla deriva con a bordo i passeggeri. Ecco l’idea di “Lord Jim”. Pare abbia lasciato qualche conto da pagare, ma gli scandali sono altri.
La seconda sera faccio compagnia alla signora We nella cena frettolosa in un angolo della terrazza. Ieri parlava di storie da dimenticare. Quali storie, per esempio? Nel pomeriggio avevo scoperto il terribile segreto dell’albergo ascoltando l’inglese della guida robot che portava a spasso i giapponesi. Quando i giapponesi hanno invaso Singapore, all’inizio della seconda guerra mondiale, gli ufficiali importanti si sono sistemati nel tempio della tradizione inglese. E quando nel ‘45 gli inglesi stavano sbarcando davanti al Raffles, duemila ufficiali hanno orgogliosamente preferito togliersi la vita. Comandi supremi nelle camere dell’ultimo piano; spalline minori nella hall. Per carità, trasale la signora We, non val la pena ricordarlo. Nessuno vorrà più dormire nelle stanze sotto il tetto. L’inquietudine è un’altra. La sento un po’ nervosa: la tragedia scivola nelle chiacchiere indiscrete del vecchio impero che non c’è più. Attorno al banco del bar lo scrittore inglese Somerset Maughan gustava una birra dopo una lunga traversata. Aveva inseguito la memoria di Gauguin per scrivere “La luna e sei soldi” e raccontava a due signori distratti le emozioni che ispiravano il libro. Due inglesi mediocri nati a Singapore, vivono di commerci. Appena lo scrittore si acquieta parlano del più e del meno. Uno è tornato da Honk Kong dove “solo per curiosità” si è lasciato andare nel quartiere delle luci rosse. Cade in una retata, ne scivola via per rifugiarsi in uno “shooner”, piccola barca diretta a Pago Pago. Tre passeggeri. Sta per salpare quando arriva una donna molto agitata, anche lei in fuga dalla retata. E i passeggeri diventano quattro: il signore di Singapore, un medico, un missionario e la ragazza luci rosse. “Vuol credere”, ride il signore rivolto a Maughan mentre gli altri annuiscono perché la storia la sanno già: “Il prete e la ragazza si innamorano”. Maughan trasforma la storia in un romanzo “Pioggia” (film con Rita Hayworth) e appena il libro viene pubblicato, ogni mattina, per mesi, il signore e i suoi amici minacciano il barista: quando Maughan torna proibito versargli da bere. “Che locale è mai questo se una confidenza finisce in un libro”.
La signora We si apre alle confidenze: non creda alla leggenda della tigre rifugiata sotto il biliardo, il primo, a sinistra, nella sala dei biliardi. Ecco là: fa segno con la mano. Accanto al tavolo verde una tigre impagliata. Non è scivolata dalla foresta che nel primo novecento abbracciava ancora l’albergo. Tigran Sarkies, il proprietario, stava dormendo fra le due giovani mogli. Le urla dei camerieri lo impauriscono. Sveglia un ospite avventuroso, Charles Philipps, professore di ginnastica arrivato da Londra per dare la caccia alle tigri che tormentano il villaggio Choa Chu Kang. Tigran tormenta i baffi a coda di rondine: “Sono venuto ad offrirle una battuta di caccia, professore”. E Philipps si fa onore. La tigre è acquattata sotto il biliardo, ma il professore non perdona. Eccola impagliata. È il momento dei retroscena che la signora We scioglie in un sussurro guardandosi attorno perché nessuno sappia. “Non era una tigre selvaggia, ma un animalone addomesticato scappato da un circo. A Singapore non si vedevano tigri da metà dell’Ottocento. Mi raccomando, non lo scriva per non smontare la leggenda che i turisti adorano”.
Il mattino dopo pago il conto tremando e prima di sgombrare mi accodo alla fila B dei turisti francesi. Eccoci nella sala dei biliardi; comincia il racconto mentre preparo un sorriso. Ma la guida è bene informata: tigre, cacciatore e circo equestre inseguono le parole della signora We. Me ne vado col dubbio: il Raffles è un monumento nazionale o il teatro dei misteri imventati? Protagonista Jennifer We.