Annalisa STRADA – Sotto le tende de L’Aquila (1)
18-08-2009Qualche giorno in campeggio
Quest’estate un po’ di campeggio l’ho fatto anch’io: ho fatto un campeggio di comodo a L’Aquila. Dico di comodo perché della vita al campo mi sono presa le parti meno disagevoli: per la notte mi hanno alloggiata in uno dei pochi alberghi disponibili nei paraggi della città.
L’occasione che mi ha portato a conoscerne alcuni è stata un’edizione speciale di “Minimondi”, il festival di letteratura e illustrazione per ragazzi.
A L’Aquila i campi sono molti e ciascuno è un microcosmo che può essere anche sensibilmente diverso dagli altri. Sono stata ospite, per incontrare i bambini e i ragazzi, a Piazza d’Armi, Fossa, Pagliare di Sassa, e ho avuto modo di passare da Centicolella.
Le caratteristiche generali. Certamente, le tendopoli sono state il rifugio che si potesse fornire nel minor tempo, e tutti coloro con cui ho parlato hanno unanimemente reso merito alla rapidità degli interventi. Ciò non toglie che la vita al campo è defatigante, straniante e alienante.
La tenda è una casa sostitutiva a condivisione forzata: la si divide con la famiglia (ad avercene una, ovviamente), ma i posti che avanzano sono destinati ad altri occupanti, a volte conosciuti e a volte sconosciuti.
La notte. Dormire in tenda significa condividere le abitudini notturne in un’unica ristretta camerata, in cui sono ospiti aggiuntivi anche gli agenti atmosferici: difficile tenere fuori il freddo, l’umidità, il caldo.
I piccoli dettagli personali diventano rilevanti. I piedi fetidi, il russare, la necessità di raggiungere spesso il bagno non sono più i piccoli segreti domestici (gli angoli che già solo nella vita familiare bisogna darsi da fare per smussare), ma colpevoli abitudini che ricadono sui compagni di sonno o di insonnia. Anche il fatto di rigirarsi spesso nel letto può diventare un casus belli quando le settimane di comunione dei sonni diventano troppe.
Di intimità familiare è molto difficile parlare: anzi, non se ne parla proprio, che è già difficile anche stando zitti.
Ovviamente, oltre alle persone nella tenda sono raccolti anche gli effetti personali di tutti gli occupanti (gli abiti, gli strumenti di lavoro, i giocattoli per i bambini… tutto quello di cui non si può fare a meno nell’arco della giornata). Dove li mettono? Dove possono e dove capita, tra scatoloni, cassettiere regalate e ingegnose trovate.
Il risveglio. I bagni chimici sono in comune, come i lavandini e le docce. Scordatevi di chiudervi in bagno a leggere il giornale (per altro, l’edicola non c’è); di cantare sotto la doccia o di fare rumorosi gargarismi. Scordatevi proprio di essere rumorosi: non tutti di prima mattina apprezzano la vivacità in eccesso, anche se siete piccoli.
Ah, conviene anche che non facciate tardi, perché la colazione si serve fino alle nove nel grande tendone comune (poi c’è da pulire tutto, il pranzo da preparare e la gente è tanta).
Vi siete persi la colazione? Di bar – ovviamente – non c’è traccia (se non dove hanno provveduto i volontari o qualche attendato con spirito d’iniziativa) e al massimo potrete ripiegare sui distributori automatici.
Se siete fortunati e avete ancora un lavoro (e siete davvero fortunati, ma per questo leggete oltre), dopo la colazione potete lasciare il campo.
Diversamente, organizzatevi per passare il tempo in assenza dei normali luoghi di aggregazione che scandiscono gli spazi e i ritmi di un centro abitato. Potete starvene nella vostra tenda a condividere lo spazio ristretto con gli altri occupanti oppure restate nella grande tenda comune dove la tv è una sola, il giornale non arriva, i volontari organizzano le attività della giornata e gente di ogni altra età scorrazza.
Vi sembra che ci sia qualcosa di allettante in questa prospettiva? Forse sì, se avete qualcosa cui pensare di diverso dalla devastazione piombata sulla vostra esistenza.
Nei giorni della mia permanenza arrivavamo poco dopo le 9 del mattino. Erano giornate caldissime (inusuali per la zona) e abbastanza umide. Nei campi che ho avuto modo di visitare l’ombra naturale non esiste: la vegetazione è circoscritta e ridotta. Un po’ di ristoro viene dall’ombra artificiale delle reticelle antigrandine tirate sopra le tende, ma sotto le tende l’aria è immobile, amplificata dal tessuto scuro o dalla plastificazione dei tessuti più chiari.
Forse anche per questo gli adulti in giro erano pochi: esclusi la protezione civile, l’esercito o i volontari, restavano le mamme che seguivano le mosse dei bambini più piccoli, qualche anziano e dei ragazzi appostati a fianco dei cespugli. Per il resto, il deserto silenzioso.
Si mangia. Tra le 12.30 e le 13 e tra le 19 e le 20.30, a seconda dei campi, sono serviti i pasti. Il vitto è appetibile, soprattutto se siete in un campo dotato di cucina, altrimenti i pasti vi arrivano confezionati in confezioni di alluminio trasportati in contenitori termici.
Dato onore ai cuochi, resta il fatto che anche se pure avete la fortuna di poter scegliere tra due primi e due secondi (perché avete la cucina) dovete adeguarvi a quel che c’è e mangiarlo insieme a tutti gli altri. Lo stufato di vostra madre, l’egregio arrosto della suocera, il sugo alle melanzane che era il vostro cavallo di battaglia con gli amici… quelli dovranno aspettare!
Fare la coda con il vassoio in mano non è faticoso, salvo non siate piccoli o anziani, in questo caso sperate che qualcuno abbia voglia di darvi una mano almeno una volta ogni tanto. E, in generale, auguratevi di non prendere i giorni troppo caldi che sono toccati a me, ma nemmeno quelli piovosi che ci sono stati prima.
In una tenda c’era una madre che imboccava una ragazza handicappata adulta, e ho pensato che non deve essere facile per loro e per chi vive come loro, mangiare così.
Se il disagio non vi sembra granché, provate a sbucciare la mela per una settimana con il coltello di plastica: la nostalgia di casa arriva prepotente, insieme a un netto calo della pazienza.
Se poi siete abituati a pensare la cena come momenti di confidenze in famiglia, adeguatevi al fatto che le tavolate sono lunghe, la voce va tenuta alta per farsi sentire e la pazienza va coltivata per momenti peggiori.
Se rimandate le riflessioni a più tardi perché pensate di raccogliere le confidenze di moglie/marito/genitori/figli la sera, ricordatevi che difficilmente dormirete da soli.
Se avevate l’abitudine della tisana digestiva o della camomilla notturna… a quest’ora dovreste aver già imparto a farne a meno. E non fatevi venire il mal di pancia!
Se poi siete di quelli che fanno la pipi tre volte per notte, vi conviene dormire con le scarpe, così uscite più in fretta e magari arrivate in tempo al bagno (comune) più vicino.
Se… qualsiasi “se” vi venga in mente, pensatelo tradotto senza tetto sulla testa.
Al lavoro. Si parlava, sopra, di lavoro. Un dipendente pubblico ha senza dubbio disagi gravi per il trasloco veloce degli uffici, per il caos degli archivi, per l’incertezza della sede operativa (penso agli insegnanti), ma sono tutto sommato più sicuri di avere un futuro.
Provate però a immaginare di essere un dentista e di aver avuto la casa e lo studio in centro: mica male, eh? Ok, ma arriva il terremoto e in un solo colpo perdete la casa e il lavoro. I vostri clienti, quelli le cui lastre erano nei vostri archivi, sono sparpagliati un po’ sulla costa, un po’ nelle tende, un po’ nelle case di vacanza o ospiti di amici chissà dove. In questo momento, stanno pensando ad altro che a curarsi un molare o a sbiancarsi gli incisivi. Ma se anche ci stessero pensando, non potreste comunque aiutarli: poltrona e trapano sono sotto le macerie.
Come si fa a ripartire?
Questa domanda se la pongono un po’ tutti quelli che gestivano una libera professione legata alla creazione di una clientela localizzata o un’attività commerciale o un’impresa.
Come fare?
Sì, lo ammetto, anche a me verrebbe il mal di stomaco.
Uscire in macchina. L’Aquila è una città distrutta e con essa lo è la sua viabilità. I tragitti periferici, gli unici agibili, sono quelli su cui si riversa il traffico e questo comporta un imbottigliamento quasi costante, almeno sulle direttrici principali.
I campi sono abbastanza lontani gli uni dagli altri: se ancora avete una macchina, armatevi di pazienza e sforzatevi di essere fortunati quando si tratta di parcheggio. Se non avete una macchina, gambe in spalla e usate i mezzi pubblici: non è che non funzionino, è che non ne hanno il modo, in un tessuto urbano irriconoscibile, con percorsi inediti e con necessità non contemplate dagli orari di servizio.
Gli amici da incontrare per una pizza… anche quelli sono un privilegio difficile da raggiungere e se avete questa fortuna, la pizza la trovate solo in un paio di posti.
La vecchia casa. Le case del centro storico e le case lesionate (a eccezione di quelle con le lesioni più gravi o da demolire, quelle… quelle scordatevele) possono essere raggiunte dai legittimi proprietari solo se accompagnati dai vigili del fuoco (disponibilissimi).
Attraverso le pagine della stampa locale e un servizio di informazione basato sul passaparola, gli aquilani nei mesi scorsi sono stati convocati alle loro residenze (quando raggiungibili) per verificare i danni e portare via da casa tutto ciò che è era possibile portare con sé. Ma, poi, ovviamente, le case da riparare o da abbandonare vanno svuotate.
Ciò significa portare via tutto il possibile, magari avvalendosi di un’azienda di traslochi che dovrà essere trovata fuori dalla città, ovviamente dopo aver trovato un posto in cui mettere tutto quello che si intende spostare (e tenerlo per un tempo non prevedibile). Buona fortuna!
Una ex-città. Non è capitata l’occasione di visitare la città distrutta. Non ho cercato l’opportunità per farlo, ma se anche ci fosse stata non l’avrei raccolta perché mi è bastato soffermarmi alla periferia. Sul finire di luglio, verso sera, la periferia della città era surreale. Silenziosissima, con le case buie e vuote, le strade deserte, le vetrine spente, le crepe impudiche. A guardarsi attorno, a vedere le macerie ancora sui marciapiedi, era difficile capire quando fosse stato il terremoto: forse il giorno prima?
Di sera o di giorno, passando da un campo all’altro, costeggiando la città, si vedevano case sventrate, tetti integri appoggiati su cumuli di macerie, facciate e fiancate che nascondevano il vuoto dietro di sé, macchine stritolate da pietre e blocchi di cemento.
Sarà mai veramente possibile rivedere L’Aquila? Quale abnorme sforzo organizzativo, economico e di volontà si deve fare per rimediare a questa ecatombe? Sarà mai possibile ripulire, ricostruire, riordinare?
Sono mai esistiti o esisteranno mai un popolo e un governo (di qualsiasi colore) capaci di far fronte a una situazione simile?
Si possono riallacciare tutti i fili spezzati o si deve ripartire da zero per qualcosa che sarà irrimediabilmente diverso?
Quando e come si potrà o si vorrà ragionare operativamente di un patrimonio artistico che quanto più il tempo passa tanto più si compromette?
1 – Continua (La nuova casa, Seconde case e Università, I randagi, Ogni campo un microcosmo, I volontari, Persone e iniziative aquilane)
Annalisa Strada (1969) si occupa di servizi editoriali e di promozione della lettura. Autrice di libri per bambini e ragazzi. Pubblica con San Paolo, Piemme, Ape Junior, Paoline, Città Aperta e Gabrielli Editori.